giovedì 29 aprile 2010

Fulvio Tomizza - "Materada"

Parlando di Radio Capodistria e della RAI del Friuli ho avuto modo di accennarvi come spesso la mia attenzione vada al Friuli e a quella zona dove, con poco più di un'ora di macchina, sei in Slovenia o in Austria.
Ebbene, le lunghe ore di ascolti radiofonici non potevano non lasciare un segno sulle mie letture. E' così che ho deciso di leggere qualcosa di Fulvio Tomizza (1935-1999), scrittore istriano stabilitosi in Italia, attivo come giornalista e patrocinatore del progetto di Radio Capodistria: ho puntato sulla sua opera prima, Materada, un breve romanzo del 1960.
Vi confesso che a prima vista non era stato amore. La colpa non era tanto di Tomizza o del libro, quanto del fatto che avevo preso il libro per caso. Soffrivo da un paio di settimane di un fastidioso mal di denti (e annesso mal d'orecchi) e, infastidito da giorni di sopportazione - è il caso di dirlo! - a denti stretti, sono andato dal dentista. Che ovviamente ha deciso di passare col trapano senza anestesia.
Dolore, fischi all'orecchio, giramento di palle e di testa. Sempre il caso voleva che vicino allo studio del dentista si trovasse una grande libreria: niente di meglio per distrarsi dal fastidio di immergermi tra i libri, si sa mai che capitasse qualche libro gustoso.
E' così che ho deciso di prendere una copia di Materada, attratto da un nome, quello di Tomizza, che avevo sentito molte volte nelle mie peregrinazioni nel mare delle onde medie. Senonché ho cominciato a leggere proprio per distrarmi dal fastidio. Era inevitabile che la lettura e il dolore si sovrapponessero, non facendomi godere le prime venti/trenta pagine e facendomi credere di trovarmi davanti ad un libro che non valeva la pena. Madonna, che maledettamente diretto che è sto libro, ho pensato, mentre il libro finiva sullo scaffale.
Qualche settimana dopo, lasciati alle spalle stress e mal di denti e con la voglia di uscire dal recinto germanistico, tiro fuori Materada e riprendo la lettura da dove avevo interrotto. Effettivamente la prosa di Tomizza è nuda, priva di qualsiasi genere di retorica, cruda, però si adatta bene al contenuto del romanzo.
Siamo nel 1954 e siamo in pieno dopoguerra; l'Italia è ancora incerta sui suoi confini, quando arriva il Memorandum di Londra: Istria divisa in due zone, la A, quella con Trieste e destinata all'Italia, e la B, destinata alla Jugoslavia. Gli abitanti si domandano se convenga rimanere in Jugoslavia o passare all'Italia. Questo pressante interrogativo non risparmia il piccolo paese di Materada e il protagonista del romanzo, Francesco Coslovic, diviso tra l'amore per la propria terra e la prospettiva di rimanervi rischiando la miseria per la mancanza di una piccola proprietà terriera da lavorare.
Non anticipo oltre, non sarebbe giusto. Questo accenno al "plot" del libro serve però a capire che la prosa nuda di cui parlavo qualche riga fa ben si adatta a questo scenario misero e desolante. Tomizza non fa sconti: il ricordo del proprio vissuto da parte del protagonista non diventa occasione di mitizzazione del passato o di lirica nostalgia, ma al contrario è fredda rievocazione/registrazione di un periodo che può essere tutto tranne che vagheggiato.
Materada è un libro forte, estremamente amaro, ma proprio qui sta la sua bellezza. Angosciante nella sua trasparenza, Materada è una lezione di antropologia, in cui siamo messi prepotentemente davanti all'intrinseca ferocia e all'opportunismo dell'uomo, e di storia, una storia recente verso la quale la nostra generazione pare non aver alcun interesse. Ed è un peccato, perché scopriremmo con stupore che l'Italia come la conosciamo è, in fin dei conti, un paese tutt'altro che vecchio.

venerdì 23 aprile 2010

Il Romeo y Julieta e il mio approccio al cubano

No, non mi sono messo a leggere Shakespeare in un'improbabile traduzione spagnola. Sono però rimasto nell'ambito delle follie e, udite udite!, ho provato per la prima volta in vita mia il piacere di un cubano.
Dopo aver scoperto che con il Toscano era una causa persa (almeno per ora), ho voluto a tutti i costi capire se era proprio il sigaro a rappresentare un tabù per me o se le mie idiosincrasie si limitavano ai Toscani.
Ho avuto come al solito una buona dose di incoscienza e sono andato sui Romeo y Julieta dopo essere passato dal mio pusher di fiducia: la visione dell'humidor e dei bellissimi tubi metallici bianchi mi ha portato nel mare dei ricordi e mi ha richiamato alla memoria un cartone di Paperino in cui Qui, Quo e Qua gli regalavano una scatola di sigari. Divertito dalla rimembranza e fermamente deciso a far lavorare la mia ghigliottina per sigari, finita in cassaintegrazione dopo aver regalato i Toscani sgraditi, ho comprato un Romeo y Julieta n. 3, giusto per non ammazzarmi con un sigaro da mezzo metro.
Giunto a casa e dopo una cena abbondante, in modo tale che il sigaro non mi picchiasse più di tanto sulla bocca dello stomaco (memore in questo del brutto rapporto con il mio primo Toscano alla maremmana... lo possino!), mi siedo sul divano. A tenermi compagnia è un film del cazzo, quell'ultima indecenza animata che infanga il buon nome di Lupin III, ma forse proprio per bilanciare l'indegna presenza cinematografica sul mio televisore mi è stata regalata una serata tabagifera di tutto rispetto. Mi sono sentito per una volta tanto meglio perfino di quando prendo in mano le mie amate pipacchiotte: con la pipa ho ancora, tutto sommato, la paura che mi si spenga in continuazione e di dover intervenire in continuazione a ravvivare in un modo o nell'altro quella maledetta brace. Col sigaro, invece, dove pur bisogna stare attenti con le boccate per non infuocare la bocca e per non intossicarsi, ho sentito che la brace-mania viene decisamente meno e posso godermi di più il fumo. Da qualche giorno ho meno voglia di fumare, ancora memore della soddisfazione e della robustezza regalatemi dal Romeo y Julieta.
Non è un sigaro economico, è vero, e non riesco a seguire tutti i crismi della degustazione, come ad esempio far stazionare il sigaro nell'humidor. Tempo e soldi per comprarmi un humidor, fornirmi di una bella batteria di sigari e magari fare un corso per catadores non ne ho: devo dire però che ho anche voglia ogni tanto di staccare il cervello quando fumo e di farmi qualche fumata un po' più inconsapevole e pazza del solito, in ultima analisi meno intellettuale e più terrena, concreta. Se voglio provare i sigari e se magari decido pure che mi piacciono dovrò pur uscire dal mondo delle recensioni e provare con mano se il sigaro, sia esso cubano, caraibico, toscano o quant'altro, stimola positivamente le mie ancora inesperte papille gustative e mi fornisce quella base irrazionale di piacere per poi continuare ad interessarmi.
Non vorrei avere ferito la sensibilità di qualche fumatore più esperto di me e anzi, mi scuso sinceramente con chi di dovere se ho propugnato un approccio più "da ignoranti" del solito al mondo del lento fumo, che sappiamo dischiudersi gradualmente solo a chi vi dedica tempo e testa. Sto però maturando la convinzione che nel campo della contemplazione estetica - e in fin dei conti, il lento fumo serve a contemplare con bocca e naso - non si possa andare da nessuna parte senza quella primigenia ed irrazionale tensione ai bassi addominali, quell'avida curiosità istintiva... insomma, senza quel substrato emozionale che dipende dalla "pancia" e non dalle numerose e a volte ridondanti (ma pur utili e spesso necessarie) sovrastrutture intellettuali che ci portiamo dietro. Traslando la cosa in un altro ambito che mi è molto caro, è come dire che se mi piace un brano musicale è perché sento che ha qualcosa che mi attrae irresistibilmente. Che poi possa essere scritto con una tecnica e un linguaggio X invece che con un sistema Y è cosa di cui mi dovrò occupare ampiamente, ma solo in un secondo momento, perché se prima non ho quella "molla" irrazionale che mi spinge a cercare di capirci di più è fatica sprecata. Per quello che è la mia esperienza non solo di fumo e di arte, ma di vita in generale, credo non ci sia alcuna didascalia che ci può far piacere qualcosa che, in modo profondo e non sempre dipendente dalla nostra volontà, non ci attrae.

martedì 20 aprile 2010

Ancora Thomas Bernhard. "Meine Preise"

Qualche mese fa avevo parlato dello scrittore austriaco Thomas Bernhard riferendomi ad uno dei suoi romanzi autobiografici, Der Keller/La cantina. Ritorno oggi a parlare di questo scrittore e a parlare di un suo lavoro scritto tra il 1980 ed il 1981, uscito di recente per Suhrkamp ed edito in Italia da Adelphi: Meine Preise/I miei premi.
La prosa di Bernhard si riconosce non tanto per le numerose ripetizioni (che ben conosce chi ha letto La cantina o i lavori teatrali, come Die Macht der Gewohnheit), quanto per la sua asettica essenzialità, che permette all'autore di (ri)evocare molte situazioni, di giudicarle con distacco e di trasmettere al lettore questa sensazione di straniamento, rafforzata da valutazioni critiche ai limiti del caustico. Una scelta di campo forte, che trova riscontro in tutta la produzione di Bernhard e comporta l'adozione di precisi moduli stilistici (gran parte del teatro di Bernhard, se non la sua totalità, è scritta alla maniera del teatro documentario brechtiano, che annovera tra i suoi seguaci anche pezzi da novanta come Peter Weiss e Die Ermittlung/L'istruttoria).
L'aspetto "documentario" e straniante della personalità di Bernhard gli ha procurato la diffidenza di molti lettori austriaci, specialmente di area conservatrice, che lo accusavano di essere un Nestbeschmutzer (letteralmente, colui che lorda il nido) che gettava discredito sull'Austria e sulla sua immagine nel mondo.
Sono reazioni che non condividiamo, ma tutto sommato comprendiamo. Quella dipinta da Bernhard è una realtà reazionaria ed asfittica, ove le voci di dissenso o comunque "diverse" vengono tollerate a fatica e, pur ricevendo il riconoscimento formale delle autorità - appunto sotto forma di premio - ne subiscono la sostanziale diffidenza. Impossibile che una situazione del genere venga taciuta da un attento osservatore come Bernhard, che finisce inevitabilmente per essere una voce scomoda alle orecchie di chi preferisce chiudere gli occhi davanti ai problemi della società.
Con questo non voglio dire che Bernhard sia esclusivamente un autore di denuncia, o peggio ancora uno scrittore impegnato: le posizioni di Bernhard riflettono al contrario una posizione lontana dal riconoscersi in questo o in quel partito, una posizione eccentrica ai limiti della misantropia. Una misantropia che, si badi, non esclude - e anzi richiama dialetticamente - un'acuta sensibilità antropologica, sempre in grado di cogliere i meccanismi che muovono il singolo e di smascherarne le ipocrisie.
Si coglie quindi una profonda disillusione nei confronti della realtà. Possiamo perciò dire che disillusione e critica alla società austriaca sono i binari entro cui si muove Meine Preise/I miei premi. Questo libro è una lettura, come accennavamo sopra, essenziale, ma non per questo scarna o arida. Al contrario, Bernhard si fa leggere tranquillamente e porta alla riflessione senza incappare in nessuna retorica intellettuale o atteggiamento da filippica. Veniamo posti davanti ad un quadro tratteggiato in modo sintetico ed efficace, che ci porta a riflettere e a riconoscere che società come quella austriaca degli anni '60-'70 non sono poi distanti da quella attuale: al contrario, l'estremo individualismo e l'atomismo che la regolano sono sempre gli stessi. Qualche risata questo libro ce lo può strappare, ma è un riso amaro, il riso di chi coglie il ridicolo dell'ufficialità e della pomposità autocelebrativa ed ostentata.
Insomma, concludo dicendolo in termini volgarmente facebookiani: al Tonno che Fuma piace questo elemento.

lunedì 19 aprile 2010

Sull'ultimo special di Lupin III

Devo cominciare scusandomi con voi, amici del Tonno che fuma, per il silenzio di questi ultimi giorni. Purtroppo il tempo a disposizione è quello che è e, dato che non hanno ancora inventato la giornata di 30 ore, ogni giorno mi trovo impossibilitato a buttare giù qualche idea. Vi chiedo di nuovo scusa per questo e procedo, in questi giorni di relativo respiro, a condividere qualche spunto nato negli ultimi giorni.
Parlo di un argomento inconsueto per questo blog. Dovete sapere che sono un patito di Lupin III. Si, proprio lui, quel personaggio dei manga divenuto poi un fortunato cartone animato, che da più di quarant'anni tiene compagnia al pubblico di mezzo mondo.
Mentre sono indietro quanto a lettura dei manga, che ho sempre trovato di difficile reperibilità, per quanto riguarda la produzione televisivo/cinematografica ho visto praticamente tutto Lupin: prima serie (1971/1972, in cui Lupin indossava la giacca verde), seconda serie (1977/1981, Lupin in giacca rossa), terza serie (1984/1985, giacca rosa), oltre all'intera filmografia (eccezion fatta per l'ultimo OAV, Green vs Red) e l'intera serie degli special tv (uno all'anno dal 1989 ad oggi). Insomma, credo di avere titolo per esprimere un giudizio assennato sull'ultimo special andato in onda ieri su Italia 1, Lupin e la lampada di Aladino.
Già il titolo dice molte cose: siamo distanti anni luce dal vero, grande Lupin, quello "adulto" della prima serie e de La pietra della saggezza, piuttosto che da quello più "poetico" ma comunque grandissimo de Il castello di Cagliostro. Lupin ruba la celeberrima lampada di Aladino, la strofina e il genio, una bellezza dalle curve mozzafiato in tipico anime-style, lo trascina in avventure che vedono coinvolti spietati mercenari ed altri improbabili personaggi... tutti ovviamente alla ricerca della lampada. In palio per il vincitore c'è il solito, trito e ritrito diritto a dominare il mondo, o l'eterna giovinezza... francamente non ci ho fatto caso.
Oramai Lupin è diventato un cartone animato che cerca di coniugare improbabili atmosfere da Mission Impossible con le esigenze del pubblico (proto)adolescenziale: un tocco di magia di qua, sequenze assurde di là... d'accordo, siamo nel regno dell'animazione e quindi un minimo di scostamento dalla realtà è ammesso e in qualche modo richiesto, ma da un cartone nato con vocazione "realista" ci si aspetterebbero meno sconfinamenti nel mondo fantastico e fatti più verosimili. Il punto è che l'immagine di Lupin a metà tra (blandamente) comico, magia ed azione è l'unica che funziona presso il pubblico giovanile: è proprio su questa immagine del personaggio che si basa la recente Lupin-renaissance, con annesso marketing di t-shirt, action figures ed altre amenità.
Più che film o telefilm, gli ultimi special tv di Lupin sono dei videogiochi. Diciamo pure che si tratta di videogiochi per ragazzini non troppo svegli. Incongruenze, regia priva di personalità, inquadrature che badano solamente al colpo d'occhio (la computer graphic rende ancor più pacchiano il prodotto finale), dialoghi stereotipi e legnosi abbondano e affossano la qualità finale del prodotto. Un'altra cosa che personalmente mi "urta" è sentire i dialoghi legnosi di cui sopra in bocca al nuovo doppiatore di Lupin, Stefano Onofri. Onofri, ad onor del vero, fa del suo meglio: gli aficionados, tuttavia, non possono non rimpiangere il grande Roberto Del Giudice. Sembrava che Del Giudice credesse al personaggio Lupin in ogni situazione e in ogni special e film, anche in quelli più sfigati come Le tattiche degli angeli (2005), una delle sue ultime apparizioni da doppiatore del ladro gentiluomo.
Insomma, tanta delusione per quest'ultimo Lupin che è l'ombra di quello visto tante volte in passato.
Spero solo che vedendo Green vs Red, che si dice essere un grande prodotto, mi riconcili con la recente produzione lupiniana!

sabato 3 aprile 2010

Buona pasqua!


A tutti i lettori del Tonno che fuma e alle loro famiglie, un augurio di Buona Pasqua!