giovedì 19 gennaio 2012

Parodia portami via, o Il trionfo di Talia

Prosegue la serie delle "dissacrazioni poetiche", sull'onda di Baci Perugina telematici. Il titolo di questo post, Parodia portami via, o Il trionfo di Talia è una citazione di gusto decisamente classicista: Talia, infatti, è la musa che viene associata alla commedia e alla satira. Non è un caso che Foscolo, memore della satira civile del Parini, lo citi nei Sepolcri come "sacerdote di Talia".
Ecco spiegato quindi il riferimento del titolo. Lungi da me un paragone quantomai fuori luogo con il Parini e, in generale, con coloro che hanno portato la poesia a vette gloriose! Il riferimento a Talia è semmai una continuazione della "vis polemica" che ha animato Baci Perugina telematici: c'è sicuramente meno astio, anche se permane un (malcelato) intento dissacrante verso i celebratori della potenza sovrana dell'Io lirico in perenne priapismo emotivo. Anzi, basta fingere, siamo sinceri: pure io voglio annullare le differenze tra Io Tonno ed Io lirico! 
Benvenuti nel mio anti-Parnaso.

NARCISO 
E tenendo uno specchio in mano:
Parlo bene l'Italiano
Vado a capo quando voglio
Sono un poeta.

MASSO 
Masso inerte,
Spinge verso le porte,
Trovata la luce del giorno di porcellana
Sarà novella Atlantide,
Sommerso per l'eternità.
Libero è lo spirito
Quando cago come un mulo.

(e come nell'altro post, grazie mille a Carlo)

domenica 27 novembre 2011

Baci Perugina telematici


(questo post è apparso anche su Gruppo Abeliano)
(attenzione: contiene un post dai toni polemici sulla Nuova Letteratura Telematica, in linea con la vis polemica di altri post! L’autore si scusa in anticipo, ma non trova altre parole )

Non so voi, ma io non riesco a reggere molte piazze telematiche, dove tutti sono grandi autori e in cui si crede (si pretende?) di descrivere in modo (para)poetico e (para)elevato i grandi sentimenti che muovono l’umanità. 
Rompe violentemente i coglioni, più nello specifico, l’eleganza affettata e di maniera che pervade alcuni di questi tentativi poetici, che puntano a legittimarsi come specchio dell’umano sentire e in realtà - ammesso e non concesso che rispecchino qualcosa - veicolano solamente i (finti) drammi interiori di intellettualoidi di sinistra, area PD bersaniano-Repubblica-Popolo viola e relativi gruppi su Facebook, che giocano a fare i Baudelaire de noantri. E francamente, ad un vecchio lupo di mare simil-bolscevico con derive strutturaliste come il Tonno che fuma, la cosa non va giù.
Come esorcizzare allora la bile incipiente che assale quando si leggono dette poesie "di tema amoroso", quando i pixel vengono indebitamente occupati da sinestesie a buon mercato e figure retoriche tagliate con la mannaia? Semplice, con il ricorso alla parodia. Ed è proprio per questo che pubblico queste due poesie d’amore, scritte alla maniera di molti sedicenti poeti telematici che mischiano con imbarazzante agilità registri linguistici ed immagini paurosamente eterogenee, dando vita ad un gradevole mix orripilante. A  voi!

Francobollo (c)ostruttivo
Ti mando una e-mail
È tanto che non ti
scrivo
e lecco il francobollo
della malinconia
e l’amore
e il sentimento
e dei poeti
il cimento
io mento
momento
non funziona la catena
e l’amore
non passa
stronzo che intasa il water

Marrone 
La vita è amore
Amore
è come scatola di
cioccolatini
in cui non sai cosa ti può capitare
Può capitarti anche
il cioccolatino gusto merda
ma qualsiasi cosa ti
capiterà
sarà pur sempre un cioccolatino
e il tuo
marrone
aroma
il profumo del concime appena sparso
che sentono coloro che
amavano
amavan
amava
amav
ama
am
a
am
ama
amav
amava
amavan
amavano
amavanoi
avevo bisogno di una lettera in più
per dirti che sei
come la i in amavano
non c’entri proprio un cazzo

(grazie a Carlo per la collaborazione)

venerdì 16 settembre 2011

Boris Pil'njak, "L'anno nudo"

(questo post è apparso anche su Gruppo Abeliano)

Prima di incominciare questa scheda, urge una premessa. Chi scrive non ha certo pregiudizi verso ciò che si dice "arte contemporanea", vale a dire il multiforme insieme delle manifestazioni artistiche che, a partire dai primi del novecento - riassumendo per sommi capi - ha veicolato l'immagine di un mondo in crisi nei suoi più profondi assunti filosofici e spirituali. E' inutile sottolineare il ruolo decisivo di questa "revisione di valori" nello sgretolare le forme d'arte più consolidate dalla tradizione, fossero esse nella musica (dove Schoenberg, con la cosiddetta "emancipazione della dissonanza", decretò la fine della tonalità), nell'arte figurativa (basti pensare alla nascita dell'astrattismo) o nella letteratura (valga come esempio su tutti un'opera come Ulysses di James Joyce).
E' quindi scongiurato il rischio di una lettura con il paraocchi, che rifugge schifata qualsiasi forma di scrittura apparentemente non riconducibile ai canoni tradizionali. 
Si è però molto perplessi nel giudicare romanzi come Golyj god/L'anno nudo di Boris Pil'njak. Le recensioni disponibili su internet sono discordi nel valutare questo romanzo dei primi del novecento russo: c'è chi lo osanna come un capolavoro dimenticato e chi invece lo cestina senza appello. Come porsi allora davanti a questo lavoro? Soprattutto, vale veramente la pena di liquidare sbrigativamente la faccenda in un senso o nell'altro?
Innanzitutto, vediamo di fare un po' d'ordine e di identificare ciò di cui stiamo parlando. Boris Pil'njak (1894 - 1937) viene annoverato dalla manualistica in quella serie di autori che nella neonata URSS, a cavallo tra l'età di Lenin e i primi anni di quella di Stalin, offrirono, in tempi e con modalità differenti, un'immagine della realtà diversa da quella del cosiddetto "realismo socialista": si era infatti venuto a creare un forte controllo sulle espressioni artistiche da parte dello stato, che si preoccupava di soffocare quanto fosse in disaccordo con le principali direttive ideologiche dettate dal Partito. Tra gli "scrittori maledetti" che subirono una forte censura e/o damnatio memoriae e furono costretti a venire a patti con la realtà (in termini di autocritica o esilio forzato), vengono annoverati nomi illustri come Esenin e Bulgakov, oltre a personaggi meno noti al pubblico occidentale come Zamjatin (autore di My/Noi, romanzo precursore del genere distopico) e appunto Pil'njak.
Ma veniamo al romanzo: di cosa parta L'anno nudo? L'anno cui allude il titolo è il 1919: siamo nel periodo di guerra civile immediatamente successivo alla Rivoluzione d'Ottobre, in una terra, la profonda Russia continentale quasi a ridosso del Caucaso, segnata da lotte intestine tra varie frazioni politiche (bolscevichi, anarchici...), miseria, carestie. Pil'njak dà una lettura profondamente pessimista di questa situazione politica e sociale: al crollo delle antiche certezze dello zarismo non è corrisposto nella società un altrettanto rapido riorientamento valoriale verso il bolscevismo, e ciò si deduce dal senso di incertezza, dal sentimento di inazione e di impotenza verso la realtà che pervadono tutte le figure del romanzo. A ciò si aggiungano alcune considerazioni provenienti dalla voce autoriale, che compie un'importante glossa sull'annosa questione identitaria russa: nella Russia della guerra civile si respira un disorientamento forte, una frammentazione ulteriore in un'autocoscienza nazionale strutturalmente scissa tra contraddittori sentimenti di appartenza all'Europa, all'Occidente (inteso come categoria culturale di civiltà, lumi, progresso, potenza coloniale) e all'Asia, all'Oriente (il riferimento è sempre stato, nel pensiero russo, al presunto regresso dovuto al plurisecolare dominio imposto alla Russia dai Mongoli dell'Orda d'oro). La Rivoluzione avrebbe così incarnato, stando alle parole di Pil'njak, le primordiali forze asiatiche della Russia, portandola così ad un'inedita posizione di forza e potenza, prima che davanti agli altri stati, davanti ai propri fantasmi storico-identitarie.
Ma al di là delle considerazioni che potremmo considerare a vario titolo ideologiche, di cosa parla precisamente il romanzo? Quali vicende ci offre l'autore? Ebbene, è impossibile dire che L'anno nudo abbia una trama. Manca quello che i formalisti avrebbero definito sjuzhet, ovvero un intreccio di eventi delineati all'interno di una sequenza che ha sempre un capo e una coda. Mancano in sostanza delle vicende sufficientemente ben delineate da essere suscettibili di uno sviluppo letterario, e quindi di essere lette. Siamo davanti ad un mosaico eterogeneo di storie personali: nella città di Ordynin, sfondo su cui viene proiettata la costellazione di personaggi ed eventi proposta dal romanzo, compaiono nobili decaduti, rivoluzionari delusi, anarchici, malati terminali con aspirazioni suicide. A legare le loro storie personali, abbozzate velocemente, irregolarmente, eppure in modo abbastanza vivo, giunge il costante e martellante riferimento alla Rivoluzione d'Ottobre, vera e propria ossessione che percorre il romanzo da cima a fondo. 
Manca però qualcosa. La moltiplicazione vertiginosa delle figure, degli "attori" all'interno di un romanzo, è un procedimento che normalmente richiede un dominio sicuro della materia letteraria da parte dello scrittore. Valga come esempio in questo senso Il maestro e Margherita di Bulgakov, dove la comparsa di una messe di figure eterogenee riflette la caoticità di una realtà dove naturale e sovrannaturale si intrecciano continuamente, senza però che la narrazione perda in senso complessivo di coesione ed unità. Non si può dire che altrettanto avvenga ne L'anno nudo, dove la moltiplicazione dei piani narrativi non avviene con la stessa felicità che contraddistingue il romanzo di Bulgakov. Eppure la lettura restituisce una certa sensazione, almeno ad una prima lettura, di modernità, di un quadro della società post-rivoluzionaria russa complessivamente vivido: permane però, alla fine del romanzo, una sensazione di amaro in bocca, quasi la narrazione non avesse avuto un esito appagante.
C'è da dire infine che, mentre romanzi come Il maestro e Margherita veicolano messaggi la cui forza  trascende il contesto storico-socio-culturale in cui sono nati, altrettanto non avviene ne L'anno nudo, strutturalmente e tematicamente legato a doppio filo alla Rivoluzione: se si vuole considerare un romanzo un autentico capolavoro in grado di sopravvivere ai secoli, bisogna che questo sia in grado di offrire messaggi validi al di là delle situazioni storiche contingenti la stesura che spesso, come in questo caso, coincidono con le "quinte" del romanzo. 
Insomma, probabilmente la verità nei giudizi su questa opera di Boris Pil'njak sta nel mezzo. Ad ogni modo, se volete toccare con mano, recentemente l'opera è stata riproposta da UTET, dopo una prima pubblicazione Garzanti nel 1965. A sostanziale parità di traduzione e di prezzi, il Tonno consiglia personalmente l'acquisto - sul mercato dell'usato, ahimé - dell'edizione Garzanti, che ha una sovracoperta decisamente più intrigante dell'anodina brossura UTET.

martedì 26 luglio 2011

Una citazione

Was die Schriftsteller schreiben
ist ja nichts gegen die Wirklichkeit
jaja sie schreiben ja daß alles fürchterlich ist
daß alles verdorben und verkommen ist
daß alles katastrophal ist
und daß alles ausweglos ist
aber alles das sie schreiben
ist nichts gegen die Wirklichkeit
die Wirklichkeit ist so schlimm
daß sie nicht beschrieben werden kann
noch kein Schriftsteller hat die Wirklichkeit so
     beschrieben
wie sie wirklich ist
das ist das Fürchterlichste


Ciò che gli scrittori scrivono
non è contro la realtà
sisì scrivono che tutto è terribile
che tutto è viziato e corrotto
che tutto è catastrofico
e che tutto non ha via di scampo
ma tutto ciò che scrivono
non è contro la realtà
la realtà è così brutta
che non può essere descritta
la realtà nessuno scrittore l'ha ancora
       descritta
così com'è davvero
questa è la cosa terribile

(Thomas Bernhard, Heldenplatz. La traduzione è mia).

lunedì 4 luglio 2011

Coffee & Cigarettes


(questo post è apparso, in forma leggermente diversa, su Gruppo Abeliano)

Mi pare financo impossibile: sono mesi che non riesco a prendere in mano quanto vorrei la pipa o il sigaro. E si che sono il Tonno che fuma! Molte effigi mi ritraggono con una pipa in bocca, intento a tirare voluttuose boccate di un buon tabacco, magari mentre guardo con sguardo compiaciuto ma complessivamente disinteressato una simpatica sirena che staziona languida sugli scogli, ammiccando agli astanti.
Vi piacerebbe! E invece no, tiè, mi vedete seduto in poltrona mentre rollo compulsivamente qualche sigaretta.
Vengo dalla pipa, vengo da ambienti umidi e perciò mi piacciono tabacchi molto umidi. Che so, tipo il Golden Virginia verde. So già cosa state pensando: che cartine usi? Non le cartine Bravo, che io trovo "cartose", ma le più trasparenti e leggere OCB nere. Capirai, il fumo non sarà molto più buono, né tantomeno più sano, ma almeno la sigaretta non mi si incolla alle labbra come se avesse il Bostik.
A parte il fatto che si vede che non sono fatto per rollare le sigarette, ché ogni volta viene un aborto indicibile, quella della sigaretta è una dimensione che non mi appartiene. La sigaretta è veloce, compulsiva, fuori una dentro un'altra: gli italiani dicono che si fuma come un turco o come una ciminera, mentre i tedeschi dicono che si è Ketteraucher, fumatori a catena. Ecco, l'immagine del fumatore a catena non è la mia. Di solito fumo affondato nel divano e nei miei pensieri, magari sorseggiando una bella grappa Poli 50° e ascoltando un bel vinilazzo di cantate di Bach, o una radio un po' demodé che mi tiene fedelmente compagnia. Magari con la pipa che mi sono regalato per natale due anni fa. No, quest'anno non ci riesco.
La pipa chiede attenzione e tempo. Quest'anno mancano l'uno e l'altro. La verità è che forse mi manca il terreno da sotto i piedi, mi ritrovo catapultato in sfide che sento mie fino ad un certo punto. E poi la pipa, che per me è più fedele di uno specchio, mi farebbe capire che sto attraversando un periodo nervoso: a modo suo, chiaro, spegnendosi di colpo, riaccendendosi e scaldando il fornello con inusitata violenza. E quindi ripiego sulle meno impegnative sigarette rollate a mano. Toh, pensa, perfino il mio vate Günter Grass se le rollava a mano in un qualche periodo della sua vita, mentre scriveva il Tamburo di Latta Gatto e topo, ha pure scritto un racconto che si intitola Rollata a mano. Ma non ho bisogno di illustri predecessori per giustificarmi: ogni periodo ha i suoi piccoli vizi e le sigarette, nella loro caducità, sono il traslato, quasi il correlativo oggettivo di un periodo di instabilità.
Non riesco persino a leggere letteratura, proprio io che la letteratura la studio di mestiere. Ho bisogno di altro, leggo altra letteratura, comincio a fare un po' di traduzioncine (v. post precedente) e pian piano entro pure nel mondo della filosofia, pur a passi tardi e lenti. Diamine, dev'essere proprio una metamorfosi! Se sto lasciando da parte i miei punti di riferimento germanistici per andare a leggere qualcosa di diverso o di più ampio respiro, vuol dire che ho bisogno di nuovi strumenti. E se ho bisogno di nuovi strumenti, vuol dire che per il momento sono a secco di idee nuove. E se sono a secco di idee nuove, fumo cicche rollate a mano. E quindi, sigaretta rollata=bisogno di idee? Si, può essere.
Sicuramente le sigarette segnano i miei periodi di transizione, che sono instabili per definizione ma mi riempiono di progetti, appunti, benzina per andare avanti. La pipa invece domina nei momenti di stabilità, più solidi ma anche un po' sonnolenti, fermi. È una dialettica continua: instabilità-stabilità, sigarette-pipa. Con tutto il bene che voglio alla pipa, ogni tanto ho voglia di sigarette.
Perché ho voglia di vivere fino in fondo anche la precarietà del mio cambiamento.