giovedì 11 novembre 2010

Senza titolo: un esperimento di prosa


(questo post è uscito anche su Gruppo Abeliano)
Eppure non ci riusciva. Ogni volta che cercava di sverginare il foglio bianco con la biro blu rimaneva inebetito, come paralizzato da una sorta di timore reverenziale. Nella sua testa di studente di lettere risuonavano parole roboanti imparate nelle antologie e negli articoli di critica: realismo magico, ode barbara, endecasillabo, sirventes, stream of consciousness, coblas capfinidas… i tecnicismi della critica, segno per lui del peso immane del passato che lo precedeva, lo opprimevano. E infatti era schiacciato tra un passato più grande di lui ed un presente in cui non si sentiva a suo agio. Di qua l’urne de’ grandi, che a egregie cose l’animo accendono (ma davanti alle quali comunque ti sentirai sempre una nullità), di là le piazze virtuali dei piccoli che, dall’alto delle loro letture superficiali di classici in edizione economica e di patetici aborti di sceneggiatura spacciati per grandi romanzi, accendono flame e dettano legge su cose conosciute per sentito dire. Di qua grandi classici che parlano dell’umanità e incutono timore riverenziale, di là giovani bersaniane inutili che parlano di gruppi indie rock sconosciuti ai più e incutono un solenne giramento di coglioni.
Una morsa era, una morsa che lo rendeva impotente. Come vedeva il diarismo dei racconti distribuiti alla fermata del tram e venerati come capolavori dello scrivere odierno, scattava il suo orgoglio intellettuale per il quale si sentiva sempre più bravo, più d’élite degli altri. E pensava sempre mir ekelt von diesem tintelkleksenden Saekulum, citando il Karl Moor dei Masnadieri di Schiller schifato dai suoi contemporanei imbrattapagine. Ma quando era lì lì per aprire il bloc notes o non ne usciva nulla, e allora ritornava con la coda tra le gambe a studiare, oppure… ogni tanto, non crediate, qualcosa si faceva strada. Come un fiume in piena, il giovane scrittore palpitava di grandi emozioni e sentimenti, in un plateau letterario che faceva vivere attimi al cardiopalma: ma al momento dell’orgasmo creativo, quando incominciavano a fluire le prime parole parole sul foglio, una sgradevole sensazione di coito interrotto. Guardava il foglio e vedeva le poche parole che erano uscite dalla biro bic: sempre caro mi fu quest’ermo colle. La maledizione postmodernista lo aveva colpito ancora: siccome non riusciva a trovare il bandolo della matassa di un mondo che gli era incomprensibile, incominciava a riempire la pagina con un collage di versi già sentiti, nella speranza di creare, con la roba vecchia, un minestrone che sapesse di nuovo. Ma lo sapeva fin troppo bene che la minestra la puoi riscaldare fino ad un certo punto, poi sa di troppo cotto. E se ne ritornava invariabilmente a cuccia.
Durante una giornata uggiosa, di quelle che se almeno piovesse sarebbe meglio perché il cielo bianco non vuol dire nulla, gli venne improvvisamente un’idea: e se non fosse stata proprio la sua incapacità di scrivere il racconto che aspettava da anni, la rivelazione di cui aveva bisogno? Si sedette alla scrivania e prese il suo bloc notes ancora vergine. Nessun plateau letterario, nessun orgasmo creativo: come per magia, l’inchiostro fluiva a fiumi dalla bic blu. Per una volta non sentiva l’oppressione dello scollamento tra i suoi pensieri e le parole, o del confronto tra sé e gli altri. Scrisse un racconto che parlava di uno come lui, che non riusciva a scrivere ma che aveva scoperto che l’unica cosa che riusciva a comunicare a parole era, paradossalmente, l’incomunicabilità verbale delle emozioni. In fin dei conti, concludeva il suo personaggio, ognuno ha il suo linguaggio verbale, che non coincide mai con quello degli altri e che impedisce un dialogo dove ci si comprenda integralmente a vicenda: forse l’unico dialogo in cui le due parti si capiscono entrambe al cento per cento è proprio il monologo.
Probabilmente non pensava queste cose, o le pensava fino ad un certo punto. Sicuramente aveva copiato quello che aveva scritto uno dei suoi grandi miti letterari, Thomas Bernhard. Per una volta però, e di questo era sicuro, non si sentiva in colpa per aver fatto proprie parole e pensieri degli altri: non lo faceva perché sapeva di aver preso, anche di striscio, una delle grandi domande che si poneva da quando era entrato in quella che chiamano “età del giudizio”.
In fin dei conti sapeva di aver scritto, per la prima e forse ultima volta, qualcosa che potesse dire intimamente suo.